Ieri al MAXXI è stato presentato il nuovo allestimento nella Galleria 1 di alcune delle nuove opere acquisite dal museo.
In mostra una selezione dei circa settanta lavori che nel corso del 2018 hanno arricchito il patrimonio pubblico degli spazi di via Guido Reni e che, attraverso acquisizioni, committente e donazioni, si inseriscono nel processo di valorizzazione e ampliamento della collezione.
La prima parte della Galleria è dominata dalla grandiosa e variopinta opera Wood Seven dell’artista tedesca Katharina Grosse, che accoglie i visitatori e si fa notare in modo invadente, grazie alla contrapposizione dei suoi colori accesi e le pareti bianchissime dello spazio circostante. Un enorme tronco d’albero al quale il pubblico si avvicina curioso, ci gira intorno scoprendo i dettagli delle macchie di colore sul legno.
Il lavoro della Grosse è in compagnia di altre importanti opere, come le tre fotografie ‘pop’ di Hassan Hajjaj, che fanno parte del progetto site specific Le Salon Bibliotèque esposto nella mostra ‘African Metropolis’, e il manichino in vetroresina e cotone di Yinka Shonibare, realizzato in occasione della mostra ‘Eco e Narciso’ ospitata quest’anno dal Museo di Palazzo Barberini.
Sicuramente un altro lavoro che di certo non passa inosservato all’interno di questa prima sezione, è quello della nostra Monica Bonvicini. Un fascio di LED accecanti che cadono dal soffitto e attirano lo spettatore come una luce ammaliante. Bent and Fused fa parte di una serie di complesse costruzioni delle forme curve e arcuate realizzate dall’artista con cavi elettrici e tubi al LED, che disegnano e danno forma alla superficie luminescente.
Nella seconda parte della Galleria si apre invece il nuovo allestimento ‘Lo spazio dell’immagine‘, che indaga ed esplora i nuovi linguaggi espressivi nati grazie alla diffusione dei mass media e degli strumenti di presa diretta dell’immagine, dando vita, oltre che a nuove implicazioni culturali dell’arte, ad un dibattito che giunge fino ai nostri giorni, sull’immagine e sulla sua percezione.
Questo allestimento – che prende in prestito il titolo della celebre esposizione del 1967 a Foligno, dove i lavori erano esposti in ambienti plastico-spaziali realizzati dai protagonisti dell’arte italiana di quel periodo – vuole da un lato evidenziare il forte e più tradizionale legame con la pittura, e dall’altro l’arrivo delle nuove tecnologie ed il loro apporto nel cambiamento della fruibilità dell’opera d’arte e dello spazio che la ospita.
Circa 20 opere ci accompagnano lungo un percorso di riflessione sul tema dell’immagine e dello spazio da essa generato, a partire da altre due importanti acquisizioni, una produzione ad hoc di Marco Tirelli e due grandi lavori di Giulio Turcato, Asteroidi e Biologico.
Accanto a queste una serie di modelli del duo di architetti Labics, nuovo comodato della Collezione Architettura, la serie di disegni di Lauretta Vinciarelli e il progetto per il Teatro del Mondo di Aldo Rossi.
“Le collezioni di architettura si rivelano ancora una volta un patrimonio inesauribile di letture e spunti di ricerca sempre nuovi in cui il passato rivela la sua attualità e il presente trova le sue radici”. (Margherita Gruccione, Direttore del MAXXI)
Le opere di architettura dialogano infatti simultaneamente con alcuni capisaldi della collezione come Mao e Pope di Yan Pei-Ming, Corda di carta di giornali di Stefano Arienti, le Orme di Alighieri Boetti, e con lavori come Il Vapore di Bill Viola e Springadela di Mario Airò, che mescolano strumenti analogici e nuove tecnologie, accanto alle video installazioni Becoming Meg di Candice Breitz dalla Donazione Claudia Gian Ferrari, e Il malanimo di Diego Marcon, vincitore 2018 del MAXXI BULGARI Prize.
In occasione di questa inaugurazione, il museo ha ospitato un’interessantissima conversazione con Nico Vascellari, che insieme ad Andrea Lissoni, senior curaotr della Tate Modern di Londra, e Bartolomeo Pietromarchi, ha presentato il volume “Nico Vascellari. Revenge”, edito da Manfredi Edizioni.
Non c’era occasione migliore per accogliere, in concomitanza di un nuovo allestimento museale che indaga il rapporto tra arte ‘tradizionale’ e nuovi linguaggi dell’immagine, un artista che utilizza mezzi espressivi che vanno dalla tecnologia più avanzata ai materiali più poveri, facendo dell’interazione con il pubblico e con l’ambiente circostante il punto di forza della sua cifra stilistica.
Nico Vascellari è uno dei protagonisti della scena artistica internazionale, vincitore dell’edizione 2007 del Premio per la Giovane Arte Italiana con l’opera Revenge, presentata alla Biennale di Venezia dello stesso anno e riallestita al MAXXI nel giugno 2018. Forse l’opera emblema del suo lavoro.
Artista e cantante che gioca tra provocazione e folklore, è il performer italiano del momento. «Vascellari è il numero uno» ha detto Marina Abramovic. È stata proprio lei a premiarlo nel 2005 per il ‘folle’ progetto Nico & the Vascellaris, al Concorso della performance a Trento.
Classe ’76, ha esordito nella band punk With Love. Poi ha aperto lo Spazio Codalunga a Vittorio Veneto e fondato i Ninos du Brasil, protagonisti al mega party di Chanel di Amburgo a dicembre 2017.
Il suo è un lavoro che parte dall’amore per la musica e per il suono. Indagarlo in tutte le sue molteplici forme e analizzare il feedback e l’interazione con chi lo ascolta.
‘Il suono non ha cornici. Non è confinabile’
La ripetitività dei suoni nelle sue opere crea un loop affascinante ed ipnotico, quasi un canto delle sirene che rapisce chi si trova davanti all’opera.
Altro aspetto fondamentale è senz’altro l’dea di comunità e collettività. Il pubblico partecipa attivamente alle sue performance, realizzando video che poi verranno utilizzati per la divulgazione ufficiale del lavoro, portando casse acustiche, mixer e microfoni, un pò come fanno le band che si scambiano i favori durante i loro tour nei piccoli club.
L’opera diventa un insieme di oggetti di altri, di tante persone, l’opera in questo modo diventa viva.
Durante questo incontro l’arista ha tracciato una breve parabola su quello che è stato il suo avvicinamento al mondo dell’arte:
‘Quando mi esibivo con la mia band ero infastidito dal fatto che non potessi scegliere il movimento e i colori delle luci, il flusso delle persone, la durata della performance. Allora ho capito che qualcosa incominciava ad andarmi stretto. Ho iniziato quindi ad avvicinarmi all’arte in maniera più consapevole, perchè volevo creare il mio spettacolo’
Tutto parte da qui. Dalla voglia di creare una performance completa, con un unico regista e tanti spettatori-attori. Anche se a volte gli spettatori delle sue opere diventano loro stessi dei registi. Questa è la forza trascinante del suo lavoro.
Per chiudere il cerchio, con Revenge Nico ha posto al Museo, in quanto ambiente ospitante, un problema non da poco: come ospitare, interagire, conservare e riprodurre in maniera efficace un’opera viva. Proprio questo dialogo con lo spazio caratterizza la ricerca del suo lavoro e rappresenta uno dei più interessanti dibattiti odierni sull’arte contemporanea, che coinvolge artisti, pubblico e istituzioni.
Troppo spesso vediamo arte troppo nuova in musei troppo vecchi. Uno spazio che vuole essere all’avanguardia deve senza alcun dubbio dialogare con artisti come lui, per poter migliorare il suo appeal contemporaneo e progettare spazi in continua evoluzione che sappiano stare al passo con i nuovi linguaggi e con il pubblico che, per fortuna, diventa sempre più esigente.